Non è facile parlare di quest’opera del 1982. Non era facile farlo 36 anni fa, non lo è adesso perché questo film di Michelangelo Antonioni è tra i lavori più sfuggenti e “aperti” che il regista abbia realizzato. Oggi potremmo etichettarlo come una metafora postmoderna della ricerca intellettuale e sentimentale dell’Uomo attraverso il suo doppio, l’altro.
La storia è solo un pretesto per rivelare quanto le persone richiamino ossessivamente nella loro esistenza il bisogno di trovare le proprie ragioni esistenziali attraverso l’esperienza interpersonale, la costruzione degli affetti, il possesso di una sicurezza impossibile, la certezza della vittoria sulla solitudine. E di come alla fine rimanga tra le mani solo il senso sfuggente e irraggiungibile della propria esistenza.
Niccolò regista impegnato, splendidamente interpretato da Tomas Milian, incontra e si innamora di una donna sfuggente, Maria Vittoria (o Mavi) Luppis, aristocratica e bisessuale interpretata da Daniela Silverio. La storia si dipana attraverso il continuo alternarsi di sicurezze e insicurezze sentimentali dei due, un avvicinarsi e fuggire che ritmicamente investe i protagonisti sempre in stato asincronico tra di loro.
Niccolò rappresenta l’intellettuale solitario, assorbito totalmente nelle sue necessità e nelle sue abitudini, forse anche nei suoi incubi. Mavi è una ragazza ricca e viziata che da un lato desidera fuggire dalle convenzioni sociali della sua famiglia, e soprattutto dalla presenza di un padre naturale che odia in modo morboso (e che probabilmente la fa controllare a distanza minacciando il regista), e dall’altro è attirata dal fascino dell’uomo maturo così diverso dagli amici del suo ambiente che considera nulla di più che marionette.
L’amore di Mavi per Niccolò sembra nascere fin dall’inizio, forse da un capriccio che si spegne presto, mentre quello di Niccolò per Mavi cresce progressivamente fino a diventare un’ossessione, attraversando tutte le fasi della passione e poi della gelosia, fino al senso di mistero universale e assoluto che digerisce ogni suo pensiero, soprattutto quando la donna decide di scomparire dalla sua vita. Niccolò cerca di trovare in altre donne la consolazione alla mancanza di Mavi, specie con una ballerina, Ida (interpretata da Christine Boisson), che a sua volta innamorandosi di lui dovrà affrontare in contrappasso l’insostenibile inefficacia delle proprie speranze.
Il regista come al solito non ci regala alcuna certezza né conclusione morale, sembra infatti limitarsi a seguire i personaggi senza giudicarli mai, come un flâneur, un osservatore passivo. Antonioni cammina con i personaggi che spesso si perdono lungo percorsi apparentemente senza meta per poi ritornare sui loro passi, attraversando la Roma monumentale ma anche quella minore, delle antiche strade popolari, fino a seguirne le tracce nella campagna romana per continuare in una Venezia invernale e deserta.
Antonioni nella prima parte allestisce scene freddissime dagli arredi anonimi, accarezzate da una luce piatta e neutra studiata da Carlo Di Palma. L’algida limpidezza degli intenti del protagonista, inizialmente sicuro della sua indipendenza sentimentale e intellettuale, man mano che la storia scivola verso l’epilogo, trasfigurerà in una zona nebbiosa di incertezze e fragilità. Nella seconda parte la speranza di un nuovo amore e di una nuova vita, la promessa di un riscatto dal vuoto assoluto e senza ragione causato dall’abbandono senza spiegazioni vengono descritti con scene e luci più calde e vivaci, alfine esplodendo in una cromia incandescente nella scena di Niccolò quando solo con se stesso immaginerà la storia fantascientifica di una astronave che riesce a passare vicino al Sole senza bruciarsi. Immagine non sappiamo se catartica o infantile del protagonista, né se esprima la passione che la donna gli aveva provocato e di cui ora, forse, non riesce più a fare a meno.
Le scene sono spesso costruite attraverso la composizione di campi ben delineati nella stessa inquadratura attraverso l’uso dell’architettura; una cornice, una porta, una finestra, un muro sono strumenti per definire fratture tra il primo piano e l’intorno.
In Antonioni la figura principale di una inquadratura ha la stessa identica valenza di tutti gli elementi che si vedono sullo sfondo, questo acuisce il senso di spaesamento e di frazionamento della narrazione. Altri elementi che in questo film troviamo espressi secondo le declinazioni del Maestro sono per esempio i “tempi morti”, ovvero azioni ingiustificate dei personaggi, che nascono senza preavviso e che sfibrano la vicenda di ogni possibile percezione “eroica” o “drammatica”. La fissità di certi elementi del paesaggio, l’uso del riflesso nei mezzi piani, il dialogo non finito sono elementi atti alla magnificazione del Vuoto.
Antonioni in questo modo sottolinea il “non-senso” dell’esistenza, essendo lui stesso figlio del pensiero esistenzialista. Il girare senza meta, il non sapere che piega prenderà la nostra vita, il Fato, il Mistero di una soluzione sconosciuta vengono magnificati dall’autore che “sperde” i suoi personaggi nella nebbia, anche fisicamente, in una scena importantissima del film nella quale pur non succedendo nulla si determina il ribaltamento dei sentimenti dei personaggi.
Elemento assai importante è la colonna sonora musicale dei Tangerine Dream e di David Sylvian, piuttosto fredda all’inizio e poi inframezzata da alcune ballate della giovanissima Nannini (di cui poi il cineasta ferrarese firmerà un famoso video) e solo nella seconda parte scandita da echi di elettronica malinconia romantica.
Una curiosità: la scena iniziale, girata a Villa Chigi, che rappresenta il palazzo dei Luppis durante un party in smoking, riprende lo stesso realistico allestimento e lo stesso carattere intimo di uno stato sociale, in questo caso aristocratico, che ho ammirato nella bellissima scena dei principi ne La dolce vita di Fellini. Anche qui oltre all’ambientazione sfarzosa la critica sociale non avviene per figure farsesche ma cercando di riprodurre con fedele realismo (e probabilmente profonda conoscenza) il clima di chiusura e sospetto verso l’ “esterno” attraverso movimenti ed espressioni, curando al massimo la qualità dei costumi e dei personaggi.
La pellicola è certamente figlia dei suoi anni, e questo da un lato stimola la curiosità archeologica dello spettatore di oggi ma dall’altro dimostra pienamente alcune ingenuità e formule che però all’epoca erano attualissime e inusitate, tanto da meritare il Premio della Giuria al Festival di Cannes del 1982.
Pienamente coerente con i principi postmoderni di quegli anni, ad esempio il rileggere la “fabula” romantica e intimista secondo una narrazione “a collage”, ovvero ricostruire le immagini retoriche del neorealismo in una chiave estetica e psicologica aperta, eliminando il sistema di giudizio morale finale senza ascrivere valori assoluti alle azioni ma solo posizionali, cioè validi in modo arbitrario per quella situazione e per quella scelta narrativa. Lo stesso sistema di narrazione che negli anni Ottanta istruirà nell’arte la Transavanguardia e l’Anacronismo, nell’architettura il Post-Modern e l’Arcade, nel design il Camp. Insomma porsi come fine il processo dunque la percezione degli eventi, e non un risultato concluso che abbia un valore esemplare.
Non mi sento dunque di stigmatizzare le brevi frasi politiche espresse dai protagonisti, facilmente ascrivibili ad un dibattito sulla sinistra che iniziava una crisi di identità molto forte, che dura ancora oggi e che gli intellettuali, come Michelangelo Antonioni, cresciuti nella cultura comunista delle certezze dogmatiche trovava profondamente disorientante. La presenza di scene di nudo che al cinema erano state censurate potevano essere tranquillamente evitate, anche se Antonioni desidera esprimere la carnalità come unico momento di incontro reale dei due personaggi, forse perché per il regista il sesso è istinto animale mentre l’amore è frutto dell’inconscio e della creazione dell’Io.
La scelta di un’attrice non particolarmente affascinante o espressiva come la Silverio (che ebbe poco successo), ovvero di una donna dal volto fondamentalmente banale, serve per sottrarre dal ruolo di Mavi ogni tipo di fascinazione classica che distragga lo spettatore verso linee retoriche che attenuerebbero il principio costitutivo del film. In questo Antonioni esprime una misoginia forte perchè in realtà il fulcro della storia è il narcisismo del protagonista maschile, interpretato da un attore carismatico e duttile come Milian, e tutte le altre figure esistono in funzione del suo specchiarsi continuo nelle proprie necessità e nel proprio infantile sentire.
Niccolò attraverso l’identificazione dei perché di Mavi cerca i perché su se stesso, ancora una volta soddisfando il suo mondo chiuso, autoreferenziale, di artista, e forse questo aspetto ci fa pensare che lo stesso Autore parlasse di sé.
Lambert