L’opera di cui desidero parlarvi è un altro film quasi introvabile (rare copie in vhs ex-noleggio) e misconosciuto dei primi anni Ottanta. All’epoca in America fu un discreto successo ma un flop in Europa e ricordo che io stesso lo andai a vedere in un cinema piuttosto modesto in montagna senza aspettarmi granché.
Il cacciatore dello spazio, film del 1983, in realtà merita un suo posto di diritto nella lista di pietre miliari della cinematografia sfigata che talvolta, nonostante l’evidente carenza artistica del prodotto in sé, presenta elementi curiosi o addirittura validi. Anche quest’opera, nata sulla falsariga dei grandi successi Sci-Fi dell’epoca, va risarcita di quella minima ma attenta considerazione che il qui presente Lambert, di cui forse conoscete la pedanteria molesta, dedica alle opere dimenticate a torto o a ragione, soprattutto quelle dileggiate e sconsigliate sui serissimi manuali di cinema e i siti cinefili, anche per puro personale dispetto nei confronti degli stessi.
Il regista di questo film, tale Lamont Johnson, è uno di quei rari cineasti che non ne hanno azzeccata una, ma proprio neanche una, durante la loro incredibile carriera (incredibile se non altro perché è andata avanti un decennio nonostante i flop ripetuti).
Ricordo che tra il 1977 e il 1983 uscirono nell’ordine: Guerre stellari, Interceptor (il primo film post-apocalittico), 1997: Fuga da New York, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Starman, Blade Runner, Star Trek: The Motion Picture, L’impero colpisce ancora, E.T. l’extra-terrestre e last but not least Il ritorno dello Jedi. Tutti capolavori del genere Sci-Fi e successi stratosferici di pubblico. Eppure in quegli anni le produzioni di serie B, specie negli Stati Uniti, erano una realtà serissima, insomma erano le utilitarie del genere cinematografico e si accontentavano di riempire gli ancora esistenti drive-in, luoghi nei quali l’attenzione del pubblico era altalenante tanto quanto le sospensioni delle automobili e sfocata quanto possono esserlo i finestrini appannati di un abitacolo surriscaldato.
Dunque mi chiederete: perché mai parlarne, a parte il fatto che tra i due Cinetecari sei il critico più bislacco? Perché anche in questo film oltre alle sgangheratezze ravvisiamo alcuni elementi che, almeno per il cinefilo perverso, ce lo restituiscono come un esperimento visivo curioso.
Brevemente la storia: un lussuoso vascello passeggeri viene distrutto da una tempesta magnetica e tre ragazze piuttosto bellocce e con assurde pettinature sul tipo “presentatrice di Canale 5” trovano la salvezza, grazie ad una elegante navicella di salvataggio, sull’orrendo pianeta Terra 11 ex-colonia terrestre che trent’anni prima era stato colpito da una pestilenza artificiale che ne aveva decimato la popolazione, lasciando gruppi di sopravvissuti mutanti, deformi e/o disperatamente raminghi nelle sue lande desolate. Il pianeta è controllato dal crudelissimo cyborg Overdog (un Michael Ironside al suo primo ruolo di rilievo, anche se irriconoscibile) che instaurata la tirannia vive protetto nella citta-stato della Zona Proibita, operando nefandezze da mane a sera, lasciando al di fuori gruppuscoli di cannibali, predoni e selvaggi ad uccidersi tra di loro in mezzo alle macerie. Sarà il prode Capitano Wollf, avventuriero spaziale, a rispondere al segnale di aiuto guidando una squadra di semi-disperati raccolta durante il percorso.
La storia è indubbiamente di una linearità elementare ed è altrettanto latente di autentici colpi di scena. La “fabula” si snoda in una sequenza priva di qualsivoglia intreccio che interrompa la scansione regolare di eventi susseguenti, e racconta il peregrinare dei nostri verso la città-stato di Overdog sfuggendo alle insidie di un mondo in dissoluzione, fino a raggiungere il regno del cyborg. Overdog, ex scienziato causa della pandemia, è ormai un mostro quasi totalmente inumano, tenuto in vita dalle macchine che assorbono l’energia vitale di giovani vittime recuperate dal suo viscido vizir detto Il Chimico. Sarà il prode Wollf che riuscirà ad intervenire appena in tempo prima che le tre ragazze vengano dilaniate dalle torture dei “Giochi della Morte”, organizzate per puro piacere dal pazzo cyborg che sublima evidentemente la mancanza della libido con le perversioni più violente. Il protagonista Wollf è tale Peter Strauss, all’epoca ancora piuttosto noto per avere interpretato un cult movie particolarmente violento e politicamente impegnato quale fu Soldato Blu del 1970 e per qualche telefilm. La coprotagonista Nick è Molly Ringwald, giovane speranza del cinema di quegli anni (qui all’inizio della carriera che poi avrà grande successo con Breakfast Club del 1985 e Bella in Rosa del 1986) che dopo pochi anni verrà retrocessa nuovamente in serie B.
Altri interpreti sono Andrea Marcovicci (Chalmers) e il nero Ernie Hudson (Washington) che troverà breve notorietà con Ghostbusters (1984). Insomma la presenza di attori professionali e tutto sommato discreti non salvano il lavoro piatto di Lamont Johnson. Di questo prodotto troviamo apprezzabili l’estetica anni Cinquanta delle scene e la fotografia colorata in post-produzione, anche l’idea di mischiare una classica storia di cowboy spaziali con lo stile post-apocalittico di gran moda in quella prima metà degli anni Ottanta. Ricordo che questo genere era stato lanciato da un b-movie (ma geniale) dal titolo Mad Max – Interceptor (1979) di George Miller, cineasta australiano, con un Mel Gibson ventenne. Il problema del film di Johnson è tutto nel regista, sciatto e privo di guizzi che affida le scene al designer di produzione ma non riesce a creare movimenti di macchina e coreografie d’azione degne di nota, e soprattutto che non si accorge di filmare un diorama desertico lasciando a margine dell’inquadratura la veduta del parcheggio degli studios, oppure in un’altra inquadratura il pavimento di assi di legno che sostengono la macchina da ripresa.
Lasciamo perdere le tre cretine permanentate che più che zampettare a destra e a manca non sanno fare, lasciamo perdere i mutanti obesi di cui si nota chiaramente la cerniera del costume. È evidente il senso di risparmio di una produzione minore che per altro sceglieva lo stratagemma delle scene post-apocalittiche proprio per riutilizzare fabbriche dismesse o rottami abbandonati. Questo film forse ingiustamente dimenticato è comunque una “perla” tra i B-movie e lo si deve apprezzare soprattutto per lo sforzo dell’abile scenografo di produzione che in questo caso ha organizzato le famose “nozze coi fichi secchi” scegliendo un disegno vagamente neoliberty per le astronavi, per i veicoli ispirati alle illustrazioni di Alan Daniels e per le molte ambientazioni che seppur prodotte con un budget basso dimostrano una certa capacità di rendere le atmosfere efficaci senz’altro rifacendosi a Karel Thole, mitico illustratore degli anni Sessanta / Ottanta. Per intenderci, un film coevo come Flash Gordon (1980), oggi cult-movie ma che fu un flop eccezionale, aveva un budget dieci volte superiore e nonostante lo splendore estetico generale e la presenza di star internazionali non posso certo dire che rispetto a questo fosse un film migliore…
Per cui cari lettori, voi che cercate dal sottoscritto la raschiatura del barile cinematografico, eccovi questa pietra miliare delle baracconate cinematografiche… e che lo sforzo sia con voi!
Lambert
Film evocati:
Soldato blu (Ralph Nelson, 1970)
Guerre Stellari (George Lucas, 1977)
Incontri ravvicinati del terzo tipo (Steven Spielberg, 1977)
Star Trek: The Motion Picture (Robert Wise, 1979)
Interceptor (George Miller, 1979)
Flash Gordon (Mike Hodges, 1980)
L’impero colpisce ancora (Irvin Kershner, 1980)
1997: Fuga da New York (John Carpenter, 1981)
Blade Runner (Ridley Scott, 1982)
E.T. l’extra-terrestre (Steven Spielberg, 1982)
Il ritorno dello Jedi (Richard Marquand, 1983)
Il cacciatore dello spazio (Lamont Johnson, 1983)
Starman (John Carpenter, 1984)
Ghostbusters – Acchiappafantasmi (Ivan Reitman, 1984)
Breakfast Club (John Hughes, 1985)
Bella in rosa (Howard Deutch, 1986)