La figlia di Mildred Hayes, una donna del Missouri, è stata uccisa e brutalizzata. La polizia locale è alla secca in una stasi inaccettabile, così Mildred pensa bene di commissionare tre manifesti motivazionali da dedicare allo sceriffo Bill Willoughby. Sorgeranno alle porte di Ebbing, in una strada “dove non passa mai nessuno” ma che sarà il nucleo provocatorio di un big bang di reazioni. I cittadini dell’America più recondita si schiereranno dalla parte dell’onesto sceriffo, dando prova del meglio e del peggio, perseverando nei loro integralismi e dando contro alla madre.
Lo precisiamo subito. Oltre al Missouri bucolico – che si vede benino ma fa solo da sfondo non espressivo – dovete scordarvi il drammone classico hollywoodiano. L’intenzione dell’autore non è stimolare la sete di giustizia dell’americano medio, nessun senso di catarsi indotta, il film non è la via per l’espiazione. Tre manifesti a Ebbing, Missouri, scritto e diretto dall’irlandese Martin McDonagh, conduce la carovana dei pionieri più in là per trovare una terra diversa e sinora mai promessa.
La ricerca pone la lente sull’America profonda, citata da un Missouri che ne diventa centro irrequieto, luogo rappresentativo di una crisi che scuote il Paese da anni. Il Civil Rights Act degli anni Sessanta è una carta dimenticata, offesa da razzisti e omofobi che ancora non hanno fatto i conti con le loro radici schiaviste e che tendono a soggiogare nel pensiero – ma anche nelle azioni – quanti non la pensino come loro. I casi di violenza sui neri ci arrivano più o meno quotidianamente su TV e cellulari, così uno degli agenti ne diventa portavoce e nume tutelare: “non torturiamo negri, torturiamo persone di colore”. In un contesto simile l’autore pone una madre alla ricerca di giustizia per la figlia, un’eroina caustica che se la dovrà vedere con poliziotti portatori insani degli stessi difetti di cui sono vittime i civili.
Gli americani, sembra ricordarci McDonagh, disillusi dal progresso esasperato, animati da pensieri fondamentalisti che non ammettono quelli divergenti, brancolano nel buio della loro incompiutezza almeno quanto i cops del recondito Missouri. Mildred (Frances McDormand, Golden Globe 2018 alla Migliore attrice in un film drammatico) è lei stessa integralista, e come uno di quei personaggi cari a Clint Eastwood non è disposta a mediare per ottenere ciò che vuole. Le risponde con la stessa forma mentis l’agente Dixon (Sam Rockwell, Golden Globe al Miglior attore non protagonista), giovane represso e alcolizzato non particolarmente brillante che vive ancora con la madre, espressione coercitiva e truculenta di una volontà popolare che non accetta l’affronto alla sua guida. E lo sceriffo non è un cinico disumano ma l’ago della bilancia, il catalizzatore della storia, quello che metterà i due poli in sedi più vicine facendo in modo che ognuno prenderà la strada giusta.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri avrebbe potuto essere uno di quei film “di sinistra” che fanno sentire più giusti quanti non si sognerebbero di insultare nemmeno una mosca decollata dalle deiezioni di una mucca, o un prodotto “da commercio” per rassicurare le élite borghesi sulla loro superiorità nei confronti delle classi più umili. Ma il regista è più arguto di quanto non avremmo mai creduto e sa che il cinema, oltre ad essere un media d’arte (o da pop corn), può anche assurgere a strumento di ricerca della verità, nella fattispecie quella di una società chiusa e irrisolta.
Ve lo assicuro, il film è grandioso, almeno per quel che riguarda la concezione del divenire degli umori. Il punto forte è che non sai mai dove ti trovi. Pensiamo alla poetica di Eastwood, a quei personaggi anarco-liberali difficili da inquadrare in uno schieramento politico ma che comunque hanno le idee chiare su quel che va fatto, forse anche troppo. Ma poco dopo le azioni di Mildred e dei poliziotti ci smentiscono a gamba tesa, non era come credevamo, qualcuno è disposto a redimersi e a divellere la propria indole. L’attrice protagonista ci ricorda un film dei Coen di cui è stata feticcio, così come ce lo evoca l’autore della colonna sonora, il Carter Burwell tanto caro ai fratelli – l’aria lirica e leggera che fa da contraltare al momento drammatico sembra il tema di Ladykillers o Fratello dove sei. Ma a ricondurci ai Coen sono soprattutto i dialoghi caricati di una verbosità scurrile e irresistibile, e i characters stupidi che prima o poi faranno qualcosa di assurdo. La violenza è esplicita ed altrettanto estremizzata, come nel Tarantino più serioso.
Ma risolvere il rebus delle comparazioni non è una pratica olistica, il film non è la semplice somma del tutto. L’opera di McDonagh brilla di luce propria, inversamente proporzionale allo humour nero (foschissimo) che si insinua nel dramma come una tenia. A stimolare l’interesse più carnale dello spettatore è proprio lo spirito incalcolabile di questi bifolchi, capaci delle azioni più terribili come di quelle più commoventi e spiazzanti. Insomma McDonagh sembra darci una speranza che non è da ascrivere nel superamento dei limiti valoriali – razzisti e sessisti rimarranno tali, la redenzione non è “interna” – ma nella possibilità di condurre una battaglia comune, che se non può fornire un equilibrio personale può almeno portare a quello interpersonale.
La regia è minimale, totalmente asservita ad uno script che deve arrivare allo spettatore senza ambiguità fotografiche, senza simbolismi da decifrare né virtuosismi. Ma in una pellicola simile funziona perfettamente, complice una sceneggiatura che raggiunge vertici inauditi (il Golden Globe a McDonagh – che nasce come commediografo – è meritato come negli altri casi). La performance di Frances McDormand è esemplare, incisiva, perfettamente calcolata nelle pause eloquenti, nell’abito dell’eterna operaia che risolve la vita in modo pratico e poco sognante. Le fanno eco un sensazionale Sam Rockwell (Dixon), magistrale col suo poliziotto ottuso e violento, e un grande Woody Harrelson (sceriffo Willoughby). Tutti e tre sono candidati agli Oscar.
Spogliatevi della vostra sensibilità ai motherfucking e andate a vederlo. Non voglio sentire ragioni.
Kimerol
Film evocati:
Fratello dove sei (fratelli Coen, 2000)
Ladykillers (fratelli Coen, 2004)
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh, 2017)