Nel 2005 Werner Herzog tornava sugli schermi dei solluccherati di nicchia col suo personale film di fantascienza, L’ignoto spazio profondo. Un alieno (Brad Dourif, sembianze “quasi” umane) tiene un monologo davanti la cinepresa guardandola dritto nella lente. Racconta la storia della sua specie: il pianeta d’origine stava morendo e si è trasferita sul globo terracqueo per realizzare idee grandiose, ma non è riuscita ad integrarsi. Ironia d’una sorte distopica, una guerra ha distrutto tutto, anche la Terra è alla deriva e l’uomo è quasi estinto. Così un gruppo di astronauti umani si getta a capofitto nello spazio per trovare una nuova casa. Sbarcheranno sul Wild Blue Yonder.
La poetica del cineasta tedesco poggia sul terribile confine tra fiction e non-fiction. Herzog prende alcune immagini davvero “reali” – tanto vere che addirittura sono state girate anni prima e non da lui – e le inserisce in un altro contesto per costruire un significato del tutto diverso da quello originario. La risemantizzazione è palese sin dai titoli di testa, “a science fiction fantasy”. Il film è infatti girato come se fosse un documentario, dando l’idea di ingenue riprese fatte in estemporanea e alcune lo sono per davvero. Le immagini degli astronauti ad esempio sono realizzate da essi stessi all’interno dello Shuttle STS-34 nel corso di una missione NASA del 1989, il Wild Blue Yonder invece altro non è che l’Antartide, situato a pochi secondi luce.
Lo spettatore vede gli astronauti volteggiare nello Shuttle e grazie al suo personale dizionario visivo sa che non sono reali, quando appare il pianeta liquido se non pensa all’Antartide riconosce almeno le riprese subacquee. Realizza così di leggere una storia a partire da scene girate in contesti che esulano dalla storia stessa – il cineasta si diverte a sconfinare nel territorio della “realtà” per costruire la sua personale “finzione”, interrogandolo sulla sussistenza del confine tra i due spazi.
In realtà il regista non intende svelare i meccanismi della finzione cinematografica, è più che altro affascinato dalla veridicità di alcune riprese documentaristiche ed è convinto che abbiano una potenza suggestiva funzionale alla sua estetica. Non a caso le sue storie sono evocate attraverso ambientazioni vergini o pseudo tali, pescate qua e là dal mondo e mai cadute nell’obiettivo prima di allora. Aguirre e Fitzcarraldo trapassano i pericolosi e crudi ambienti fluviali del Sudamerica, gli aborigeni di Dove sognano le formiche verdi sono impressi nelle vastità australiane che, nonostante la multinazionale lì presente per sfruttare le risorse del sottosuolo, danno un senso di inesplorato perlomeno all’occidentale.
Il film spaziale di Herzog sovverte tutte le regole registiche possibili. Il buon Dourif (visto mirabilmente in Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma anche ne I cancelli del cielo, Dune e Velluto blu di Lynch, nel primo e nel secondo Il signore degli anelli) ci guarda con la sua espressione accigliata per depositare il suo diario. L’inquadratura è sempre sconnessa, l’alieno appare qua e là nel frame in barba alle più elementari regole fotografiche. Lo sfondo urbano, ridotto a brandelli di rifiuti, viene ripreso quasi per caso, non necessariamente quando il character sottolinea l’olocausto postbellico. Il concetto di ritmo è del tutto assente, per restituire il senso di amatoriale. La colonna sonora, eseguita dal violoncellista olandese Ernst Reijseger in collaborazione con il cantante senegalese Mola Sylla, col coro sardo Cuncordu e Tenore de Orosei, concede note lunghe, ipnotiche, ed è montata in modo che non costituisca interpunzione tra le scene.
Se si è pronti a rinunciare alle certezze narratologiche guardare un film del genere può significare spaesarsi piacevolmente. Herzog ci aveva già provato con Fata morgana e Apocalisse nel deserto ma mai come in questo caso aveva investito lo spettatore di oneri così gravosi. Il movimento lento e caotico della cinepresa subacquea regala un mondo meraviglioso e terrificante, al pari delle possibilità espressive della realtà plasmata per la finzione, ma chi guarda deve essere pronto a scandagliare nel proprio vissuto, altrimenti dell’ignoto spazio profondo non rimarrà che un calderone sconclusionato di scene sgrammaticate. Se lo spettatore avrà successo, allora il Wild Blue Yonder sarà abitabile.
Kimerol
Film evocati:
Fata Morgana (Werner Herzog, 1971)
Aguirre furore di Dio (Werner Herzog, 1972)
Qualcuno volò sul nido del cuculo (Miloš Forman, 1975)
I cancelli del cielo (Michael Cimino, 1980)
Fitzcarraldo (Werner Herzog, 1982)
Dove sognano le formiche verdi (Werner Herzog, 1984)
Dune (David Lynch, 1984)
Velluto blu (David Lynch, 1986)
Il Signore degli Anelli – Le due torri (Peter Jackson, 2002)
Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re (Peter Jackson, 2003)
L’ignoto spazio profondo (Werner Herzog, 2005)