Lo chiamavano cinema politico, compatendolo come un male stagionale estremamente virulento. Così ai malati di celluloide impegnata iniettavano l’antibiotico più aggressivo, chiudendo il tutto nella provetta di genere. Non c’è ingratitudine maggiore nei confronti di quella stagione che etichettarla secondo confini endemici. Per noi Cinetecari non c’è soluzione migliore che recuperare il virus e spararlo su cinefili e civili, in maniera da scatenare una guerra batteriologica.
Todo modo di Elio Petri, del 1976, è un film dimenticato, per quanto amato dai cultori dell’autore. Da un paio di anni redivivo per la riproposizione nelle sale, con tanto di dvd in edizione restaurata (dovevamo aspettare così tanto?), lo guardiamo affezionati sparigliando dalla mente le distorsioni del pregiudizio storico – ed augurandoci che chi non l’abbia visto possa redimersi durante il coprifuoco.
Periferia desolata di una città archetipica, assediata – per l’appunto – da un flagello che nemmeno la peste nera. Tra ambulanze isteriche e nebbie appestate spunta l’auto presidenziale, con Gian Maria Volonté terribilmente somigliante ad un noto statista. Arriviamo ad un edificio modernista in cemento armato gestito da gesuiti, andiamo nei sotterranei tra aule bunker e catacombe, condotti dalla musica d’organo straniante e dilatata di un inedito Morricone. L’ambiente e la situazione sono di un surreale piatto ma opprimente. Compariranno altre figure, vestite come il Presidente, individui della stessa specie: sono gli esponenti della Democrazia Cristiana al canto del cigno, scesi nelle viscere della terra nella clinica-centro meditazioni Zafer per espiare le loro colpe, ripulire la coscienza da malfatti e maltolti mentre fuori tutto crolla, e stimolare una volta di più – per mano e occhio di Petri – le fantasie degli italiani vessati dalle oscure segrete del potere.
A condurre gli esercizi spirituali è l’ammonitivo don Gaetano, un magistrale Marcello Mastroianni, colluso e corrotto. Ma la degenerazione della classe dirigente, consapevole della propria sete di dominio, porterà ad una serie di omicidi in seno al gruppo, e i superstiti tenteranno disperatamente di risolvere il caso come in un Cluedo, prima che siano essi stessi a perire. Potrebbe sembrare una storia banale, lo sfogo di un Petri che augura alla DC di collassare per sua stessa mano, ma c’è di più.
La tesi del Cinetecario, ostinata e contraria a tutte le altre: Todo modo non è solo una profezia sulla fine di un partito (che sopravviverà un’altra quindicina d’anni, salvo poi ridistribuire le correnti nei partiti della Seconda Repubblica) ma un gioco visionario totale che prescinde dalla storiografia politica, la messa in scena di fantasie estremamente evocative, la costruzione di un mondo fittizio nato sì dal reale ma che vola su altri generi, per mostrare quanto perverso possa essere l’istinto alla sopravvivenza di un gruppo al comando.
Don Gaetano non è che uno stregone pagano che mette gli individui in contatto con l’aldilà (altro che Santa Chiesa). Solo questo gesuita conosce i sistemi per arrivare alla salvezza – non importa se eterna o terrena –, così il suo programma viene seguito senza troppe esitazioni. Un solluchero memorabile è la preghiera a passo veloce, in cui gli onorevoli si affrettano a fare la spola da un punto dell’altro della stanza, cercando di sopravvivere al ritmo via via più frenetico e alla loro debolezza psicofisica.
Il film è una commedia dell’arte tinta di grigio, o forse sarebbe meglio dire un teatro del paradosso. Le “scenette” sono irresistibili, la recitazione è caricata, la cinepresa spesso si avvicina ai volti per violarne l’intimità e suggerirci qualche pensiero recondito. Il regista spiattella l’obiettivo in faccia, sui corpi, esacerba le pantomime, in ottemperanza ad un cinema tutt’altro che realista; ci mette anzi davanti ad un artificio teatrale palese, dichiarando apertamente la sua verve provocatoria. Il grottesco qui raggiunge la sua apologia, supera quella di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e trascende l’aspetto politico per arrivare ad uno ancora più vitale, la conservazione del sé.
Sullo sfondo l’obiettivo primario dichiarato di rappresentare lo schifo di una classe dirigente avariata, confermato da Sciascia, autore del libro da cui la pellicola è tratta: “Todo modo è un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva e non poté intentare ai democristiani oggi è Petri a farlo. (…) Non esiste una Democrazia Cristiana migliore che si distingua da quella peggiore, un Moro che si distingua in meglio rispetto a un Fanfani. Esiste una sola Democrazia Cristiana con la quale il popolo italiano deve decidersi a fare definitivamente i conti”. Ma la chiave di lettura, aggiornata al 2018, può andare oltre le cancellate del centro di meditazione, scardinare la riduttiva recinzione del cinema contestualizzato e approdare ad un terreno più grande, calpestabile anche da generazioni future che di quel partito non sapranno nulla.
Emblema contraddittorio del gioco è il Presidente Moro, animato da un incredibile (per chi non lo conoscesse) Volonté. Questi è semi impotente, abile nel sopravvivere grazie ad un gattopardiano mantenimento dello status quo: “Sogno… ad occhi aperti. Desideri di stupro, anche passivo… capisci?”, dice a don Gaetano, “Come in politica, sogno di prendere delle decisioni: la riforma sanitaria, medicine gratis per tutti, e allora tu sai quanto mi sta a cuore questa riforma, vero? Ma non riesco a vararla. Do il via alle operazioni… e poi mi ritiro. È come un’erezione mancata”. Moro-Volonté caracolla tra ragion di stato e spirito di autoconservazione, facendo proprio il motto gesuita “Todo modo para buscar la volontà divina” – della serie “il fine giustifica i mezzi”, “Dio lo vuole”. Sostituiamo “Dio” con “sopravvivenza” e il gioco è fatto.
Todo modo non ha mai collezionato troppe stelline sulle riviste specializzate (al contrario del precedente citato e de La classe operaia va in Paradiso), accusato dai più di essere sconclusionato nel divenire dell’intreccio e troppo caricaturale. Lo sarebbe (in parte) se la chiave di lettura fosse la mera critica al partito di Moro e Andreotti, non lo è proprio per l’altro modo in cui noi preferiamo leggerlo. Lungi dal Cinetecario evocare tesi antropologiche, è meglio definirlo come una parabola bizzarra (Lambert in tal senso ha recensito La decima vittima), una situazione tra il comico e il tragico allestita secondo un linguaggio arguto, una messa in ridicolo di un gruppo umano che tenta di portare avanti la propria razza. La tecnica di ripresa volta al deforme, il montaggio preciso ma che si prende tutto il tempo, i dialoghi innaturali, le connessioni misteriose tra correnti e notabili ne fanno un film grandioso, che a molti risulterebbe tutt’oggi disturbante. A margine le performance brillanti di Ciccio Ingrassia e Mariangela Melato (nei panni della moglie del Presidente) e quelle epiche di Mastroianni e Volonté.
La pellicola più che la fine della DC testimoniò il tramonto anticipato di un cineasta parzialmente celebrato ma mai abbastanza valorizzato. Un paio di anni dopo Aldo Moro fu eliminato secondo le immagini che tutti ricordiamo e le trame che ancora non conosciamo, e Todo modo diventò definitivamente tabù, dopo essere peraltro già stato sequestrato ad un mese dall’uscita. Fortunatamente grazie alle riedizioni siamo qui a parlarne, scrollandogli di dosso l’odore dell’oblio. Se pensate di avere anticorpi sufficienti mettetelo pure nella vostra cineteca, farà una bellissima figura.
Kimerol
Film evocati:
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
La classe operaia va in Paradiso (1971)
Todo modo (1976)