L’armata Brancaleone, i cenciosi di ieri sono gli italiani di oggi?

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Fatti non foste a viver come bruti, il compendio del pensiero dantesco. Chissà se il Sommo Poeta avrebbe protestato con la tragica terzina, se avesse incontrato Brancaleone e la sua armata. Un insieme di sgangherati elementi da pronta rottamazione, un manipolo di militi medievali – umili nel pensiero ma ambiziosi nelle intenzioni – gettati nella giostra più raffazzonati di un tamarro dei giorni nostri. Ma dove oggi c’è il gelo di una cultura inconsistente – eh sì, una critica spicciola fa sempre il suo porco effetto – ieri c’era un rabberciamento geniale, tenuto insieme da Mario Monicelli.

L’armata Brancaleone (1966, è passato più di mezzo secolo buio) lo conoscerete quasi tutti come le vostre tasche – e se le avete vuote lo citate inconsciamente, colmi di epiteti e parafrasi presi dal film – perciò una recensione sarebbe totalmente inutile, se non dannosa. Il Cinetecario preferisce allora ripercorrerne le gesta in cinque punti salienti, argomentazioni basali del perché un film del genere è assolutamente cruciale.

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LA TRAMA – L’aspetto per me meno interessante va menzionato se non altro per quelli che lo reputano al mio contrario. Cosa c’è di interessante in un cavaliere cialtrone alla conquista della Terra Promessa? Tutto, hanno ragione i teleologici del primato della storia. Un’armata picaresca si promette al cavaliere per avere un duce, secondo un ordine più utilitaristico che ideale. Si partirà alla conquista del feudo di Aurocastro, legittimati da una pergamena di Ottone I strappata ad un altro cavaliere assaltato da barbari alemanni e ritenuto morto. Si incontreranno pecorelle bizantine smarrite (Teofilatto de’ Leonzi, ovvero Gian Maria Volonté reduce dai western con Leone), pulzelle imbevute di peste (Maria Grazia Buccella) e verginelle da tutelare (una ventenne Catherine Spaak), e poi filosofi cristiani in cammino verso la Terra Santa (Zenone, Enrico Maria Salerno), ma anche fabbri aspiranti suicidi, orse gelose, altri bizantini, saraceni ed altre insidie. Una trama irregolare, somma di microplot dilatati dalla sapiente cinepresa del regista romano – sempre un po’ crudo e stranito, con quel ritmo impreciso ma con la solita sagacia – che insieme ai fidi Age & Scarpelli allestisce una farsa teatrale irresistibile nella forma e nei contenuti.

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L’IDIOMA – La cifra incommensurabile è la neolingua che piomba addosso come un esercito da Guerra Santa. Il latino maccheronico è frammisto ad un italiano volgare – un originale falso storico – a sua volta contaminato da flessioni dialettali. Brancaleone è un norcino dalle connotazioni nazionali, ha la dizione dei migliori italiani proiettati nell’universalismo dei propri intenti, ripulito da regionalismi. Teofilatto un finto nobile bizantino dalla erre moscia e la parlata impastata, l’accento è del nord più che dell’est. Il prolassato Pecoro, umile di cervello ma tronfio nell’impostazione fisica, è un umbro-marchigiano-ciociaro del centro. Mangoldo una sorta di genovese minimale, Zenone un grande oratore dalla sviolinata in falsetto. Ne viene fuori un calderone infernale che riesce ad essere esilarante anche quando non se ne colgono le sfumature. “Avrete sentuto, suppongo, lo nome di Groppone da Figulle. Egli fue lo più grande capitan di Tuscia, et io son colui che con un sol colpo d’ascia lo tagliò in due. Lo mio nome – state attenti – lo mio nome est Brancaleone da Norcia!

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L’IMPIANTO SCENICO – Un medioevo cencioso mai visto prima. Le scenografie finte e parodistiche firmate da Piero Gherardi – deus ex machina di alcune visioni di Fellini – costruiscono un piccolo palcoscenico per burattini, buono per eroi cavallereschi sconclusionati ed arrivisti. Leggiamo un fumetto della commedia dell’arte, lontano dagli austeri tempi bui della tradizione medievale. A richiamare il fumetto e la velleità marcatamente farsesca dell’operazione sono anche i titoli di testa animati e gli intervalli didascalici firmati da un ispirato Emanuele Luttazzi. Memorabile è il tema musicale di Rustichelli – divenuto tormentone insieme a decine di frasi quotate ormai da cinquant’anni – cantato tutt’oggi con inusitato entusiasmo da vecchi e piccini. Epocali i costumi, dello stesso Ghirardi, col cavallo Aquilante tinto di giallo, gli abiti sbrindellati, il vello e le calze ascellari di Pecoro, la tonachella da funzionario amministrativo notabile-contabile di Abacuc (l’indimenticabile Carlo Pisacane), il saio opaco di Zenone, la mise improbabile di Teofilatto, poi la psichedelia sulfurea e futurista dei bizantini e – dulcis in fundo – la parodia di Toshiro Mifune (de La sfida del samurai di Kurosawa) nella persona di Brancaleone. Il capello nero segmentato col ciuffo irsuto, lo pseudo chimono nero dalle maniche larghissime, la camicia chiara a contrastare il tutto: la caratterizzazione dell’eroe è memorabile.

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VITTORIO GASSMAN – Andrebbe visto solo per l’arguzia scenica di questo grande attore. L’eloquenza marcatissima – allo stesso tempo critica e tributo all’artificiosità teatrale – prende ancora come non mai, vederlo all’opera per l’ennesima volta conta come la prima. Dopo avere lavorato con Monicelli ne La grande guerra e ne I soliti ignoti, Vittorio Gassman si cimenta con un personaggio più estremo e di sicuro rischioso: un improbabile Don Chisciotte, un Cavaliere inesistente calviniano molto più scemo, in un momento in cui la commedia italiana preferiva adottare costumi e ambientazioni coevi. Otteniamo qualcosa di mai visto prima (Monicelli spiegò bene a chi si ispirò), per un film difficile da inquadrare nel mero cinema di costume o nella classica commedia.

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L’ATTUALITA’ DEL FILM – Lo so, il prendere un film “dei tempi andati” e dire “è attuale” è la cosa più banale che possa dire un Cinetecario. Ma per una volta voglio cedere alla tentazione. Prendete un popolo, uno qualunque. Fornitegli una causa, dategliela per caso: una mappa del tesoro, un lascito in banca da ritirare, o la semplice volontà di Nazione di farsi tale e progredire nel marasma della globalizzazione. Oppure, semplicemente, osservate il cipiglio apparentemente assennato, quel tirare a campare che anima gli abitanti del Belpaese. Avremo sempre bisogno di una guida, di un nume tutelare, di un eroe, di un cavaliere, di un presidente o di qualcuno che ne faccia la veci. Così come l’armata necessita del suo Brancaleone – uno che pretende la corona più per opportunità del caso che per meriti personali. Ma ameremo sempre Brancaleone più dei nostri duci perché egli nel suo prendersi sul serio rimane comunque un brav’uomo, del resto Aurocastro gliel’hanno offerta per mandato.

È tutto, tirate le somme. Oppure guardate il film.

Kimerol

 

Film evocati:

I soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958)

La grande guerra (Mario Monicelli, 1959)

La sfida del samurai (Akira Kurosawa, 1961)

L’armata Brancaleone (Mario Monicelli, 1966)


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