Quattro astronauti, tra cui il Brandon Routh dello sfortunato Superman Returns (in quel caso ingiustamente sottovalutato), vengono chiusi in un rifugio sotterraneo allestito in tutto e per tutto (questo pensano gli scenografi) come una navicella spaziale e isolati completamente per 400 giorni. Ovviamente provati dalla vita sotto scatola si troveranno ad affrontare la tragica realtà della situazione e di ciò che sta avvenendo veramente.
Tra velati struggimenti psicofisici e psicanalitici, visioni da crisi di zuccheri, turbolenze inspiegabili, scazzi, fantasmatiche presenze, flashbacks sentimentali e soprattutto l’orrenda reale condizione a cui sono destinati i quattro fessi spaziali, la storia arriva ad uno stupido finale tronco. E noi, che siamo mooolto più creativi degli sfigati che hanno scritto il film, immaginiamo almeno tre fighissime conclusioni alternative, stupendoci del fatto che non siano venute in mente ai cineasti in questione.
Film bizzarro e bislacco dunque, che avrebbe potuto essere un’opera sì povera ma interessante – come Moon di Duncan Jones o il più antico Dark Star, film intimista, psichedelico e assai inquietante del 1974 di John Carpenter – se solo avesse espresso un qualche genere di talento in qualche sua parte.
Qui la povertà della produzione, di idee e non solo di soldi, è struggente e si vede tutta. La navicella rifugio sembra un mix tra uno showroom dell’Ikea dei primi anni, una scenografia polacca dell’epoca sovietica e la scena teatrale di uno spettacolo scolastico. Nessun effetto speciale se si escludono i computer Commodore 64, gli schermi Samsung comprati in saldo da Trony e le lampadine colorate. Gli interpreti pur bravini sembrano annaspare in uno script che tradisce continuamente i colpi di scena che presenta. Lo sbilanciamento tra i rimandi ai diversi generi – fantascienza psicologica alla Tarkowskij, horror anni Settanta alla Hopper, fantastic-thriller alla Carpenter – continuamente richiamati ma mai sviluppati secondo linee guida delineate e la totale mancanza di intuizioni e di cifra stilistica fanno fallire l’esperimento, che rimane un pasticciaccio brutto sotto scatola.
Per capirci: 10 Cloverfield Lane di Dan Trachtenberg è l’esempio più azzeccato che ci sovviene per paragonare questo film ad una storia simile, ma con un pathos e delle idee che nella pellicola di Ostermann non esistono nemmeno lontanamente.
I caratteri umani sono sciapi come una minestra di verdure Knorr, le scene sono di cartapesta, i costumi non parliamone, i colpi di scena sono prevedibili almeno venti minuti prima che accadano e la sciatteria nei particolari della sceneggiatura è fin da subito manifesta nella infantile mancanza di attenzione degli autori.
Che dire, una cagata pazzesca? Non del tutto, in realtà avrebbe potuto funzionare, non con dei milioni in più ma con un po’ di arte e di fantasia.
Lambert
Film evocati:
Dark Star (John Carpenter, 1974)
Superman Returns (Bryan Singer, 2006)
Moon (Duncan Jones, 2009)
400 giorni (Matthew Ostermann, 2015)
10 Cloverfield Lane (Dan Trachtenberg, 2016)