It. Il clown è tornato

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Ha segnato la vostra giovinezza, lo so. Avete masticato raccapriccio indigesto prima di andare a coricarvi. I mattini non hanno dissolto le nebbie fresche della notte, l’agitazione ha colonizzato l’intestino come il più vile dei parassiti. All’alba dei Novanta eravate solo dei ragazzini alla scoperta del mondo, virgulti in piena crescita alle elementari. Mi riferisco a voi come foste il sottoscritto.

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La miniserie televisiva recapitava a noi piccoli che ancora non avevamo letto il libro l’orripilante icona del male. Perché mai un essere simile dovrebbe spaventare? Be’, non sto tanto a psicanalizzare, ma le motivazioni non mancano. Prendete una maschera festaiola a cui associare farsesca ilarità, sistematevi a ridosso della pista di un circo. I capelli tinteggiati come molle bizzarre, il naso a patata color sangue, il fondotinta d’un bianco esanime, il sorriso spalancato sulle vostre coscienze. Dovreste divertirvi, no? E poi quelle gag simpatiche, le frequenze dei piatti e dei tamburi nell’aria. Quel personaggio sembra venire da un altro mondo, il pianeta dei giochi e dell’innocenza. Eppure no, andate via senza avere spezzato il filo dell’ansia.

Stephen King aveva visto bene, non era mica scemo? La sua monumentale opera rotava sull’asse di mille questioni, ma iconograficamente attorniava una sola figura. La stessa che ritroviamo nei multisala assieme a quel filo, il cordone non è stato reciso.

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Lo vuoi un palloncino Georgie? Cosa avrà spinto l’animo del bambino di Derry a fidarsi di quell’uomo che spunta dalla fognatura? I colti esegeti del gotico ci direbbero che siamo istintivamente attratti dal male. Più vorremmo essere al sicuro da questo e più lo cerchiamo, per averne catarsi. La letteratura gotica, da Il castello di Otranto a I racconti dell’incubo di Edgar Allan Poe, ci fornisce esempi d’alta scuola. Se ci immergiamo nella paura è perché speriamo che i fatti resteranno sempre relegati a quelle righe – o immagini, se parliamo di cinema – e da che mondo è mondo un po’ d’inchiostro non ha mai ammazzato nessuno. Poi ad abbattere il mostro c’è sempre qualche eroe. E se non ce la fa pazienza, meglio a lui che a noi. Ma Georgie Denbrough è solo un bambino, non sa discernere. Prova a prendere quella barchetta in accordo con la sua stessa innocenza, colmo del senso di fiducia che solo un bambino può avere. La vicenda diegetica di Georgie, se la accostiamo alla nostra emotività di spettatori, è tutt’altro che catartica. Quando l’ingenuo viene risucchiato, la nostra fiducia viene tradita e sprofondiamo nel terrore. Semplice, ma efficace.

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It di Stephen King è un’opera summa, consegnata ormai alla storia. L’idea di assegnare ad un clown la parte principale del male fu tutt’altro che nuova, anticipata per certi versi dal Joker di Batman ed altri villain reali. Non possiamo non citare l’oscura figura di John Wayne Gacy, il sadico aguzzino dell’Illinois che negli anni Settanta si accanì su decine di vittime, soprannominato “Killer Clown” perché era solito animare le feste indossando il costume che sospettate (quando la realtà supera la fantasia, come nel caso del “macellaio pazzo” Ed Gein, ispiratore di Leatherface-Faccia di cuoio in Non aprite quella porta). Ma Pennywise è quello che ai tempi del mito avremmo definito un mutaforme, si presenta sotto diverse sembianze, tante quante sono le fobie degli esseri umani che incontra e di esse si nutre. Il cattivo si anima nell’assoluto della sua malvagità ma si presenta in modo del tutto relativo – ad ogni protagonista la sua specifica immagine terrorizzante. Anche qui idea non nuova, inutile scartabellare l’indice del mito o dei manuali del gotico. Ma in un momento storico come quello degli anni Ottanta, in cui per l’americano medio il nemico si nascondeva un po’ ovunque nel mondo, la soluzione è proficua. Aggiungete la figura del pagliaccio maniaco, il mutaforme, il bambino braccato, l’innocenza tradita e avrete il cocktail universale. L’opera di King funziona ancora e a tutte le longitudini.

L’opera di King, appunto. Il film no.

Tranquilli, non farò spoiler. La pellicola è ancora nelle sale e sono sicuro che molti di voi la vedranno a breve. Da bravo Cinetecario però è mio dovere mettervi in guardia.

Vado a guardare il film sparigliando l’incenso dei critici di tutto il globo. Ho registrato perlopiù recensioni entusiaste, plausi al politicamente scorretto e glorificazioni delle scene splatter. In effetti la violenza non manca, è notevolmente maggiore rispetto alla miniserie tv del 1990 di Tommy Lee Wallace. L’infanzia dei giovanissimi di provincia è desolata a livelli estremi, si strizza l’occhio ancora più marcatamente a temi rischiosi come la violenza sui minori, la pedofilia, il bullismo, le madri ossessive che minano la psiche dei figli. Gli ingredienti ci sono, ma la torta è un pasticcio.

Convenzionale è la parola giusta. E’ un horror “normale”, una parola che – mi capirete – è portatrice di placido insulto. Non aspettatevi colpi di frusta, non sussistono. Tutto scorre sul letto ordinario di un fiume lento e ben cadenzato – ma fin troppo prevedibile, e non solo perché conosciamo bene la storia. La caratterizzazione dei personaggi è velata ma non sottintende chissà quale mistero. Gli episodi granguignoleschi sanno di già visto, certe immagini mostruose copiate – probabilmente – a Sam Raimi sono fini a se stesse. E dire che il regista Andrés Muschietti prova a metterci del suo, nei primi minuti la cena è servita ed anche bene. Ma la tensione non progredisce, rimane ferma al palo della prima fermata di Derry.

A cosa è servito questo It? A farci considerare l’opzione di estrarre il libro dallo scaffale per toglierne la patina ventennale. Pollice in giù, lo dico con rammarico. Se il mio parere vi giunge contrario, se a voi il film è piaciuto, giuro che ne sarò felice. Vuol dire che avrà restituito almeno ad alcuni le sensazioni di un tempo.

Concludo con una nota positiva. Il giovane svedese Bill Skarsgård nei panni di Pennywise è in parte credibile, per quanto non scalfisca di un atomo la classe statuaria di Tim Curry. Quell’It rimane tuttora il più efficace, al netto dei valori edulcorati del testo costruito per il pubblico televisivo.

Cosa rimane alla fine dei giochi? Personalmente, il ricordo di sensazioni mai sopite che il film ha solo opacizzato. Tutt’altro che tenue dovrebbe essere il sorriso di un clown che emerge dalle viscere della terra – o meglio dalle fogne, essendo noi dei poveri moderni – per scarnificarci coi nostri stessi patemi. Quel clown ha tradito la fiducia di noi fanciulli. Il film ha fatto altrettanto con le nostre aspettative di bambini un po’ cresciuti.

Kimerol


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