Mettetevi comodi sulla vostra poltrona e lanciate il film. Fuori piove, ugge sinistre appannano finestre ed umori. Ma il brutto deve ancora venire, starete al gioco? Perché il film di stanotte è un frullato di David Lynch, è probabile che vi andrà di traverso. Alla meno peggio, le mucose sensibili dei vostri stomaci sono avvertite. Eraserhead sta per esplodere, prendete un gastroprotettore.
1977, America. George Lucas impacchettava il suo Guerre Stellari, coi suoi eroi scovati dal mito e la brillante fotografia elettrica. Roba da fare uscire le sinapsi dai corretti binari, per le masse e per i cultori. Ma il cinefilo medio, si sa, vuole anche – soprattutto – altro. Quell’anno un simpatico giovanotto sul lastrico trovò il modo di farsi distribuire il film d’esordio, dopo anni di gestazione a basso costo. A riprova del tenore sperimentale del periodo vi è il fatto che un film del genere, al netto delle sue specificità di confine, rimase in certe sale newyorkesi per altrettanti anni.
David Lynch, l’artista. Cineasta rivoluzionario che tutti conoscete, spesso viene epitetato con la definizione più lata del creativo. In lui imperversano immagini forti, fumi e suffumigi di meditazione, esperimenti pittorici e fotografici. La prima parola doppia a cui penserete sarà Twin Peaks, e il doppio quivi ricorre nella dicotomia commerciale-autoriale. Dai clamori popolari di The Elephant man agli assurdi incroci di Strade perdute e Mullholland Dr., dal vecchietto che si fa l’America sul trattorino in Una storia vera alle estenuanti sequenze di Inland Empire, la cinematografia di Lynch è un continuo salto tra il prodotto usufruibile dai più e quello digeribile dai meno. Il film di stasera si rivolge ai secondi.
Un uomo siede alla finestra davanti ad una sorta di cassa, con la leva fa su e giù. Dalla bocca dell’allucinato Henry Spencer fuoriesce un verme-spermatozoo gigante. L’animale risale delle condutture o delle valli di un mondo ancestrale, fate voi. Ecco una testa, quella di Henry. Et voilà un pianeta, forse è una roccia. Henry torna a casa schiacciato dall’evento e da un asfissiante bianco e nero retrò. Gli esterni sono desolati, viscidi. L’eroe guadagna il suo appartamento per mezzo di inquadrature che ricordano alcuni edifici fatiscenti dei primi film del muto. Una donna lo avvisa, i suoceri lo aspettano. Henry va da questi, gli viene offerto un pollo che si anima sanguinando. L’uomo è un ex idraulico, la donna gli chiede se non abbia ingravidato la figlia. La fidanzata quindi si trasferisce da lui, ora Henry ha una coinquilina ed un figlio dalle fattezze ovine. Il mostro piange, la donna è isterica. L’uomo sogna una donna dai tumori elefantiaci sulle gote, la vede attraverso il termosifone mentre gli canta In Heaven da un palchetto. La compagna intanto se ne torna dai suoi, non sopportando i vagiti urticanti della creatura. Henry prova a prendersi cura del nascituro tracotante di pustole. Copula con la vicina, sogna, gli mozzano la testa (in sogno?). Rinsavisce e chiude il cerchio.
La trama più o meno è quella. Scegliete il foglietto dal carnet delle interpretazioni e provate ad inserirlo nella serratura del film come chiave di interpretazione. La porta si apre, ma la chiave non collima. Siete incollati allo scranno domestico e non sapete come colmare gli spunti che vi agitano le interiora? Tranquilli, la chiave perfetta evidentemente non esiste. Se volete vi mando la mia. Eccola.
Henry è un individuo pitocco e offeso da una società industriale o postindustriale, non sa risolvere le sue nevrosi, ha problemi più importanti che le trame dei film. L’uomo con la leva probabilmente è una parte di se stesso, lo aiuta a tirare fuori un bambino dalla sua stessa bocca. Il nascituro, che nel primo piano narrativo nasce dalla fidanzata, altri non è che un ulteriore se stesso, forse il principale. Il piccolo è malato e richiede attenzioni ma Henry non sa che fare, come non sa che fare con la propria persona. Per di più il bambino non gli permette di dormire e sarà la causa della fuga della partner, o magari lo irride quando tenta di accoppiarsi con la vicina. Alla fine della fiera l’eroe non avrà altra scelta fuorché eliminare il figlio – ovvero se stesso – divenuto il nemico, una sorta di coscienza sinistra che gli procura sofferenze stranianti. Henry vede il suo corpo perdere la testa e le sue cellule essere utilizzate per produrre matite con la gomma (le heraserheads, appunto). L’unica soluzione è abbandonare il luogo (esistenza) e rifugiarsi in un non-luogo (la sua stessa mente, la quale contribuisce in qualche modo a cancellare le brutture della vita). Di primo acchito potrebbe pensarsi al luogo come allo spazio della vita reale, ma non è così o almeno non solo. Il luogo di Henry è esso stesso irreale, lo prova il fatto che sia occupato (anche) dalla donna del termosifone, ossia il risultato di proiezioni creative inconsce. Così il protagonista sventurato è costretto a sostituire un irreale con un altro irreale.
Stanchi? Scusate, stavo scherzando. Tutte queste considerazioni, se volete, non sono così fondamentali. Eraserhead è un progetto narrativo non lineare in cui si mischiano i piani e le possibili interpretazioni. Guardatelo in santa pace e giudicate voi medesimi, se vi fa piacere ricomponete il puzzle. Ma anche in un contesto come questo, in cui la trama è la cosa meno importante, è il caso di fare i conti con una ri-costruzione della storia in sé, la quale rimane pur sempre un affare non trascurabile.
Ma volendo venire meno al concetto di trama, rimane l’impianto suggestivo di un film di culto (surrealista, espressionista, orrorifico – gli hanno detto di tutto e forse a ragione) che attanaglia la vostra testa. I primi frame consegnano quella di Jack Nance, con la sua capigliatura memorabile, ripresa di traverso – ad evocare un errore marchiano o una distorsione estrema della macchina da presa. Un pianeta-masso gigante, frutto della bieca cattiveria artistica di un cineasta squattrinato, risucchia in dissolvenza la figura di Jack Nance-Henry. Il bianco e nero ad alto contrasto di un ambiente sudiciamente bagnato non chiarisce se siamo in una fogna o altrove. Siamo però nel luogo di Henry, dove si agitano le nevrosi e gli effetti che queste comportano, con cui egli dovrà fare i conti. L’appartamento è serrato come a difendersi dal mondo esterno, benché esso stesso non rappresenti un nido-baluardo di difesa (siamo pur sempre nel luogo). Gli affreschi rimessi dal cervello di Lynch sono tanto sensazionali che un film del genere entra nelle vene per non uscirne più. Varrebbe la pena vederlo solo per quelli.
Vi alzate dal divano per guadagnare il letto, consci di avere perso qualche certezza. Fa niente, torneranno. A conclusione di tutto, sperando di non essere troppo tranchant, segnalo il restauro della pellicola da parte della Cineteca di Bologna, benché l’edizione home video sia onestamente degna di rispetto.
Se avete apprezzato la visione allora restate su questi schermi, magari il Cinetecario vi offrirà perle più rare. Fino ad allora tenetevi stretto Eraserhead. E il suo regista-leggenda che dissolve con la gomma i tratti decisi del cinema tradizionale. Il Lynch che cancella, appunto.
Kimerol
Film evocati:
Guerre Stellari (George Lucas, 1977)
Eraserhead – La mente che cancella (1977)
The Elephant Man (1980)
Strade perdute (1997)
Una storia vera (1999)
Mulholland Drive (2001)
Inland Empire – L’impero della mente (2006)